Sull’amore tra Elsa e Italo aleggeranno sempre “nuvolaglie che impediscono il volo del nostro amore”

Italo Calvino ed Elsa De Giorgi

È proprio grazie al suo valore universale e al suo simbolismo che la favola della “Sorella del Conte” riesce a parlare di tutte le vicende amorose precedentemente esistite insieme a quelle che esisteranno, come avvisa Calvino sempre nella Prefazione: “Gli innamoramenti più concreti e sofferti delle fiabe… sono di quando la persona amata prima la si possiede e poi la si deve conquistare… Corre sulla fiaba italiana una continua trepidazione d’amore.. è lo sposo soprannaturale raggiunto in una dimora sotterranea, del quale non si può rivelare il nome, il segreto, pena di vederselo fuggire… è la ragazza colomba (Paloma) che se rià le ali fugge via. Storie diverse ma che tutte narrano dell’amore precario, che congiunge due mondi incongiungibili, che ha la sua prova nell’assenza: storie di amanti inconoscibili che si hanno solo nel momento in cui si perdono”. <126
Questa continua trepidazione d’amore che scorre lungo tutte le fiabe italiane secondo un tema comune che le lega assieme è la stessa che grava su Calvino in quegli anni, un Calvino trepidante d’amore incastrato anche lui nel crudele gioco amoroso dell’avere e della possibilità del perdere.
È proprio qui, in queste righe della Prefazione che Calvino ci lascia un altro dettaglio che ci riconduce alla De Giorgi: “la ragazza colomba che se rià le ali fugge via” è lei. Quella Paloma tra parentesi – che in lingua spagnola significa semplicemente “colomba”, “piccione”, è proprio Elsa De Giorgi, come lo è Raggio di sole, come lo è Viola nel Barone rampante: ‘In stampa il libro era dedicato “A Viola” e a mano “A Paloma, il barone”’. <127
Calvino dunque cita “La ragazza colomba” <128 che è un’altra fiaba palermitana che narra di un giovane “un picciotto disperato come un cane” che moriva di fame. La favola è divisa in due sequenze principali: nella prima, il picciotto finalmente trova da lavorare, solo una volta l’anno, da un tal Greco-levante che un giorno lo chiama per fare una faccenda per lui e partono in direzione della montagna. Arrivati ai piedi della montagna il padrone dice al picciotto di salire in cima alla montagna e una volta in cima di buttargli giù tutte le pietre che avrebbe trovato. Per farlo salire fino a lì il Greco-levante prese un cavallo, lo uccise, lo spellò e fece entrare il picciotto nella pelle dell’animale. In quello un’aquila arrivò, afferrò la pelle di cavallo con dentro il picciotto e la trasportò in cima alla montagna. Il picciotto non fidandosi di lanciare le pietre al padrone per il timore che una volta lanciategliele tutte lo avrebbe lasciato lì portandosi via il bottino, decise di fare a modo suo e di scendere dalla montagna da solo. Esplorando bene trovò una specie di bocca di pozzo, alzò il coperchio vi si calò giù e si trovò nel bellissimo palazzo del Mago Savino che lo prende a suo servizio: ogni mattina avrebbe dovuto dare novantanove legnate ai suoi dodici cavalli.
I dodici cavalli però erano un tempo degli uomini e, vedendo il picciotto che stava per dar loro le novantanove randellate, lo supplicano di colpire in terra anziché loro e così fece il ragazzo impietosito. In cambio i cavalli dissero al picciotto che se voleva trovare fortuna sarebbe dovuto andare in giardino vicino ad una bella vasca in cui ogni mattina dodici colombe vanno a bere e una volta entrate nell’acqua diventano dodici bellissime ragazze. Il picciotto doveva scegliere la più bella e rubarle la veste di colomba per fare in modo che questa rimanesse per sempre con lui e così fa. Porta a casa la ragazza colomba, nasconde la sua veste in un baule raccomandandosi con sua madre di non far uscire la ragazza e va a vendere le pietre della montagna. La ragazza resta sola con la suocera e per tutto il giorno non fa altro che ripeterle di restituirle la veste finché la donna, esausta, decide di tornargliela non sapendo che avrebbe così causato la fuga della ragazza. Così accadde: la madre del picciotto trovò la veste di colomba e la restituì alla ragazza che, una volta indossatala, prese il volo e fuggì dalla finestra. Al suo ritorno il picciotto si dispera apprendendo la notizia dalla madre e riparte alla ricerca della sua sposa. Durante la strada trova tre briganti che stavano litigando per spartirsi tre oggetti rubati: una borsa che ogni volta che la apri è piena di quattrini; degli stivali che ogni volta che li indossi ti fanno camminare più veloce del vento e un mantello che quando lo metti, vedi e non sei visto. Il picciotto chiese di provare tutti e tre gli oggetti per poter capire quale fosse il migliore, ma una volta indossati il mantello, gli stivali e la borsa, diventa invisibile e scappa veloce con il loro bottino. Il ragazzo allora torna vicino alla vasca, ruba la veste della sua sposa e più veloce del vento la brucia. Così la ragazza colomba fu sua per sempre.
Come precisa lo stesso Calvino in una lettera a Giuseppe Cocchiara del 4 settembre del 1956 in cui dice: “Il mio intervento sui testi, quel che ci ho messo di testa mia, varia molto a seconda del materiale: talora ho rifatto io di sana pianta; ma nei casi in cui il testo era bello di per sé (come la quarantina di fiabe siciliane che ho preso da Pitré) ho tradotto il più possibile letteralmente” <129. Le due fiabe di cui si sta trattando rientrano in quella quarantina di fiabe siciliane che Calvino dichiara di aver modificato ben poco e infatti, in “Nota alle Fiabe”, nella favola della “Ragazza colomba”, lo scrittore precisa: “la ragazza-cigno o ragazza-colomba cui l’eroe porta via le vesti da uccello costringendola a restare donna è un motivo di diffusione mondiale” e molte volte lo troviamo unito al motivo del servitore di un mago che deve salire in cima ad una montagna. Calvino a tal proposito dice poi di aver seguito la versione palermitana del ragazzotto disperato che cerca lavoro e della figura del Greco-levante per poi discostarsene seguendo la versione del Pisticci in Lucania e facendo così salire il picciotto dentro la pelle del cavallo trasportata dall’aquila anziché su un cavallo alato. Il rapimento della veste alla fanciulla, invece, è una versione presente in Piemonte e in Lombardia, ma resta il fatto che il collegamento tra la ragazza colomba e Elsa De Giorgi è suggerito proprio dallo stesso Calvino che la chiama spesso Paloma (si prenda come esempio una lettera, la 2,24 – probabilmente datata all’estate del 1957 – in cui l’incipit è: “Cara Paloma, il mio Visconte è un libro freddo e meccanico…”). Tutto insomma viene riportato all’amore per la Paloma, la Palomita, il Raggio di Sole, la Rara, l’Uccellino del Paradiso, la Spuma d’Onda, il Linciotto, la Cicalina, la Fanciullina. Tutto il motivo centrale della fiaba si riconduce all’incertezza del loro amore, nato e cresciuto assediato dall’ombra del Conte Sandrino, sempre presente anche dopo la sua scomparsa e per colpa della quale Calvino fu senza sosta angosciato dal timore che da un momento all’altro la sua colomba potesse aprire le ali e fuggire via. Sull’amore tra Elsa e Italo aleggeranno sempre “nuvolaglie che impediscono il volo del nostro amore” <130.
Il collegamento ad un dato autobiografico della vita di Calvino, fatto leggendo queste favole, è possibile proprio per la natura apocrifa delle fiabe popolari nelle quali vige un’incertezza sistematica sull’identità di chi le racconta: chiunque si trovi ad ascoltare una narrazione popolare è “un potenziale futuro esecutore, che a sua volta porta nell’opera nuovi mutamenti”. <131
Dietro ad ogni fiaba quindi non si nasconde un’unica figura, ma se ne nascondono molteplici: non c’è nessuno che possa rivendicare il diritto di proprietà di una fiaba, ma allo stesso tempo ogni fiaba è di tutti. La fiaba si iscrive di diritto dentro al codice dell’irrealtà, il cui piacere nasce dalla stessa scommessa euforica che circoscrive ogni patto amoroso.
[NOTE]
126 Prefazione alle Fiabe italiane, p. XLIII
127 Così racconta Elsa De Giorgi in Ho visto partire il tuo treno p. 41
128 Da I. Calvino, Fiabe Italiane, nelle Note: Favola n. 164 da Pitré 50, Dammi lu velu!, Palermo, raccontata da una donna “di cui non mi ricordo il nome”.
129 Lettera a Giuseppe Cocchiara-Messina del 4 settembre 1956 da I. Calvino, Lettere (1940-1985), a cura di L. Baranelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000
130 L’amore poi l’addio: non odiarmi di Paolo Di Stefano in Corriere della Sera del 5/08/2004
131 Prefazione di Mario Lavagetto in I. Calvino, Fiabe Italiane, raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, Einaudi, Torino 1956 pp. XVI-XVII
Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015

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