A differenza della Wehrmacht, che aveva cominciato a formulare una specifica dottrina della controguerriglia già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, <123 l’esercito di Salò, come abbiamo avuto modo di constatare nel presente capitolo, sviluppò una propria elaborazione dottrinale sullo stesso argomento soltanto nel corso della primavera del 1944. <124 Fin da subito, invece, la repubblica di Mussolini si trovò di fronte all’imbarazzante problema di dare una spiegazione delle origini del fenomeno partigiano. Nella sua relazione al congresso di Verona (14 novembre 1943) Pavolini aveva già provato ad abbozzarne una sommaria analisi individuando quelle che, a suo giudizio, ne erano le tre componenti di fondo: «Ci sono i comunisti veri e propri, i quali si richiamano a Mosca; ci sono i gruppi che fanno capo a paracadutisti inglesi o prigionieri evasi o lasciati fuggire nei giorni del disordine e c’è infine il gruppo che si classifica arbitrariamente dei patrioti, che comprende elementi di varia tendenza, in parte antifascisti, in parte no; in parte comprende anche ufficiali decorati ed è in parte recuperabile». <125
Nel corso dei mesi successivi, gli apparati militari e la stampa della RSI furono costretti a cimentarsi nell’arduo compito di dare un’identità ad un nemico imprevisto, la cui presenza metteva in discussione molte certezze intorno alle quali era risorto il fascismo nella sua versione repubblicana. Uno dei primi documenti prodotti dall’esercito è quello – non datato, ma risalente probabilmente al mese di aprile 1944 – redatto dall’ufficio operazioni e servizi dello stato maggiore dell’esercito repubblicano, dal titolo Procedimenti e finalità di azione dei ribelli. La composizione delle bande partigiane è così descritta: «Risulta l’esistenza di bande formate di soli italiani (bande prevalentemente formate dai così detti “patrioti”); di bande formate esclusivamente di slavi (a carattere essenzialmente comunista) e bande miste. Frequente la segnalazione di presenza nelle bande di militari inglesi ed americani fuggiti da campi prigionieri; segnalata anche la presenza di qualche disertore tedesco. Le bande di norma presentano un ambiente eterogeneo. Accanto a poche persone di buona fede che si battono per un’idea, è frequente la presenza di veri e propri delinquenti fuggiti dalle carceri e di agitatori e sicari prezzolati. La massa, peraltro, dei ribelli è formata da individui non completamente in regola o perché disertori o perché perseguibili per altri motivi e che ritengono di sottrarsi a sanzioni vivendo fuori legge».
In questo documento si possono già riscontrare le due principali chiavi di lettura adoperate dalla RSI per interpretare il movimento resistenziale: la criminalizzazione e la denazionalizzazione. Si ammette la presenza di «patrioti», termine in genere utilizzato per indicare le componenti moderate della Resistenza, fedeli a Badoglio e alla monarchia, ma vi si aggiunge subito quella di slavi, in cui l’origine etnica si coniuga con l’orientamento ideologico («a carattere essenzialmente comunista»). In altri documenti dell’esercito l’elemento slavo-comunista è associato ad una conduzione della guerriglia generalmente definita di tipo «balcanico». Nel già citato rapporto tenuto da Mischi al circolo sociale di Bergamo il 18 marzo 1944, il capo di stato maggiore dell’esercito aveva richiamato l’attenzione dei presenti su questo punto: «Non abbiamo oggi il tipo di guerra partigiana di carattere storico (tipo Spagna), ma di carattere balcanico (comitati bulgari; tipo nichilista russo): guerriglia raffinata, perfezionata, che bisogna combattere e distruggere. Una guerriglia di tal genere non si improvvisa. (…..) Il concetto della lotta partigiana nelle forme più aspre, terroristiche, è una seconda natura degli slavi, dei russi. Ora nelle masse partigiane in Italia sono infiltrati molti slavi e russi ex prigionieri. Ciò bisogna tener presente nella preparazione della controguerriglia». <126 Per sottolineare la totale estraneità della Resistenza rispetto al corpo vivo della società italiana si mette in risalto anche la presenza di numerosi ex prigionieri angloamericani evasi dai campi di concentramento dopo l’8 settembre. Accanto alla denazionalizzazione del movimento partigiano, ecco comparire la tendenza alla criminalizzazione («La massa, peraltro, dei ribelli è formata da individui non completamente in regola o perché disertori o perché perseguibili per altri motivi e che ritengono di sottrarsi a sanzioni vivendo fuori legge»). Quindi la maggior parte dei «ribelli» è composta da persone che, più che per motivi di natura politica, hanno fatto la scelta di rimanere al di fuori della comunità nazionale e della legalità incarnate dalla RSI semplicemente per continuare a svolgere le loro attività criminali e delinquenziali.
Sul piano strettamente militare gli obiettivi perseguiti dalla Resistenza vengono riassunti in cinque punti: «creare l’organizzazione logistica delle zone militari» controllate dal movimento partigiano; «migliorare l’armamento e costituire scorte di munizioni»; «reclutare nuovi elementi» mediante l’attività di propaganda e di proselitismo e l’accoglimento nelle proprie file «di elementi aventi obblighi militari rispetto alle forze armate repubblicane»; «ostacolare la costituzione delle forze armate repubblicane mediante la distruzione delle liste di leva» e le minacce rivolte «contro i giovani aventi obbligo di rispondere alla chiamata nelle zone controllate dalle bande»; infine, «ostacolare lo sforzo bellico italo-tedesco mediante attentati alle linee ferroviarie, alle comunicazioni rotabili, alle linee fono-telegrafiche, alle condutture elettriche o agli impianti industriali, aggressioni ad elementi isolati delle forze armate italiane e tedesche».
Per quanto riguarda le modalità di azione delle formazioni partigiane si evidenzia l’efficienza dei loro servizi di informazione, anche se si omette di prendere in considerazione l’ipotesi che gran parte del loro successo sia la conseguenza dell’appoggio e del sostegno che esse ricevono dalla popolazione: «Le bande dispongono di norma di una buona rete informativa che consente loro di evitare sorprese e di agire con minimi rischi e con forze sicuramente prevalenti. Molte azioni di rastrellamento sono fallite o sono sboccate in un insuccesso perché i ribelli erano stati preventivamente informati dell’azione progettata e quindi o si erano sottratti o avevano teso imboscate alle forze di polizia». Naturalmente l’agguato e l’imboscata rappresentano il modo in cui le brigate partigiane attuano la tattica del “mordi e fuggi” tipica della guerra di guerriglia: «Nelle azioni contro reparti armati delle forze armate italiane o tedesche (poco frequenti per il momento) prevale la caratteristica imboscata consistente nel prendere posizione su posizioni dominanti la strada da percorrere dai reparti, sviluppare azione di fuoco di sorpresa intensa e breve al sopraggiungere dei reparti e poi dileguarsi per vie di ripiegamento perfettamente conosciute». <127
In concomitanza con l’inizio delle operazioni militari contro la “Vandea” partigiana compare quello che, senza ombra di dubbio, possiamo considerare il tentativo più “serio” di analisi del fenomeno partigiano compiuto dalla RSI: il lungo Rapporto sul ribellismo pubblicato sul suo giornale dal direttore de «La Repubblica fascista», Enzo Pezzato. <128 Pezzato comincia con l’enucleazione delle varie componenti della Resistenza, indicandone sette: i militari che si sono sbandati dopo l’8 settembre; gli ex prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento; gli evasi dal carcere; i delinquenti comuni; gli antifascisti, cioè gli oppositori di lungo corso del fascismo; i renitenti alla leva e i disertori; ed, infine, i commissari politici. Tuttavia, anche il Rapporto sul ribellismo conferma che i punti fermi dell’interpretazione della Resistenza da parte della RSI sono la sua criminalizzazione e denazionalizzazione. Infatti, dei delinquenti comuni si dice che, «se anche non sono la maggioranza numerica, sono la parte più attiva del ribellismo, quella che determina molto spesso l’azione e che contribuisce alla confusione delle idee: è naturale del resto che sia così, perché si tratta spesso di uomini decisi, coraggiosi, che non hanno più nulla da perdere e non indietreggiano di fronte a nulla. Agiscono quindi come minoranza attiva» all’interno di una massa i cui capi appartengono in linea di massima a paesi stranieri, nemici della patria: «Tranne in poche bande rimaste autonome, nelle altre i capi veri non sono più italiani: sono giunti dalle centrali nemiche, sono solitamente stranieri (tranne qualche rinnegato) e rivestono o un grado militare o la non chiara qualifica di commissario politico». <129 Passando in rassegna la Resistenza dal punto di vista dell’orientamento politico, Pezzato si sforza di metterne in evidenza l’eterogenea molteplicità delle componenti, spesso conflittuali tra loro. Tre comunque risultano essere le tendenze politiche maggioritarie: i badogliani, i comunisti e gli indipendenti. I primi, che, come ama ripetere Pezzato, abusano del nome di patrioti, rappresentano le componenti moderate della Resistenza, fedeli alla monarchia e legate a doppio filo alla Gran Bretagna; i secondi, «tutti praticamente agli ordini di Stalin, che considerano il loro capo ideale», sono considerati la longa manus dell’Unione Sovietica; gli ultimi «sono in numero decrescente di giorno in giorno, poiché la necessità di avere aiuti di ordine finanziario o anche soltanto appoggi morali fa sì che o prima o dopo molti di essi debbano mettersi agli ordini degli inglesi o dei russi e quindi rientrare in una delle categorie precedenti». <130 Curiosamente, nel Rapporto sul ribellismo, non si spende neanche una parola sulle brigate Giustizia e Libertà, facenti capo al Partito d’Azione, che, dopo quelle Garibaldi, emanazione del PCI, erano la forza di gran lunga preponderante della Resistenza italiana. Invece, un tema su cui Pezzato insiste molto nei suoi articoli è l’assenza di un progetto politico unitario. Se alla Resistenza manca un vero e proprio programma comune, «che cosa tiene unite queste persone così diverse, che tanto spesso si odiano a vicenda? La risposta è ovvia in quanto si è detto fin qui. L’interesse e la paura. Interesse presente, per quelli che approfittano della situazione per compiere rapine e vendette; remoto, per quelli che aspirano ad avere dal nemico, che hanno aiutato, onori e vantaggi. Paura di pagare il fio delle proprie colpe o di andare a lavorare in Germania o di tornare al fronte. Sono eccezione coloro che conservano ancora qualche motivo ideale: e certo non i motivi ideali sono il cemento del ribellismo». <131
[NOTE]
123 Su questo punto si veda A. Politi, Le dottrine tedesche di controguerriglia 1936-1944, Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Roma 1991.
124 Allo studio della teoria e pratica della controguerriglia da parte dell’ENR è dedicata la tesi di dottorato di F. Ciavattone, Banditi e ribelli ecco la vostra fine! Dottrine e tecniche di controguerriglia dell’esercito nazionale repubblicano (relatore prof. P. Pezzino, Università di Pisa, a.a. 2009-2010).
125 ACS, SPD CR, RSI, b. 61, f. 630, sf. 12 (Primo congresso del PFR a Verona. Testo stenografico delle discussioni), relazione introduttiva del segretario del PFR Alessandro Pavolini, 14 novembre 1943.
126 AUSSME, I 1, b. 13, f. 197, rapporto tenuto dal capo di SME al circolo sociale di Bergamo, 18 marzo 1944.
127 AUSSME, I 1, b. 1, f. 7, procedimenti e finalità di azione dei ribelli, s. d. (ma, presumibilmente, aprile 1944).
128 Il Rapporto sul ribellismo uscì in undici puntate pubblicate tra il 2 e il 13 agosto 1944. Il rapporto pretendeva di sviscerare il fenomeno resistenziale, analizzandone gli uomini, le idee, l’organizzazione, i metodi di azione, i contatti con il nemico e i rapporti tra i ribelli e la popolazione.
129 Rapporto sul ribellismo. Gli uomini in «La Repubblica fascista», 3 agosto 1944.
130 Rapporto sul ribellismo. Le idee in «La Repubblica fascista», 4 agosto 1944.
131 Rapporto sul ribellismo. L’organizzazione b) capi e gregari in «La Repubblica fascista», 6 agosto 1944.
Stefano Gallerini, “Una lotta peggiore di una guerra”. Storia dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2021
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